Coronavirus, trasformarlo da ‘emergenza’ a ‘opportunità’

Dall’emergenza all’opportunità. Dalla ‘gestione del rischio’ alla ‘spinta verso l’innovazione’. Con il ritorno ad un modello economico ‘nazionale’. Un modello a ‘Chilometro Zero’.

Quanto sta succedendo nel nostro Paese è potenzialmente tragico e drammatico – da qui alla fine dell’epidemia i morti si conteranno a diverse decine, forse centinaia, purtroppo – ma allo stesso tempo una preziosa opportunità per rinnovare l’Italia, il suo tessuto economico, la sua capacità produttiva. Dico “Italia”, ma in realtà il discorso potrebbe essere benissimo esteso all’intera Unione Europea, il cui tessuto economico ha vissuto le stesse vicissitudini di quello nostro.

Partiamo dai dati sicuri, definiti, riguardo l’epidemia di coronavirus che si sta manifestando. Per ‘dati’, non intendo quelli sanitari, quanto piuttosto le modalità di diffusione del virus e le conseguenze sul sistema economico, e dunque su quello sociale. Sono principalmente due:

1) è figlia diretta della globalizzazione, e dei flussi di traffico di persone, merci, in particolare di semi, piante, fiori e generi alimentari;

2) ha messo in luce le fragilità del sistema economico italiano.

Per quanto riguarda il primo punto, appare chiaro come una globalizzazione assolutamente libera, quando non completamente anarchica, non ha prodotto i risultati che erano stati – e continuano ad essere – promossi e predetti dai suoi sostenitori: non siamo diventati tutti più ricchi, al contrario è avvenuta una concentrazione di ricchezze come forse mai in precedenza nella storia dell’Umanità. Non solo, la libertà di commercio ha sì aumentato esponenzialmente le quantità di merci che quotidianamente viaggiano per il mondo, ma ha anche favorito il diffondersi di malattie e sindromi varie. Virus, batteri, germi di ogni genere viaggiano, infatti, con le persone, ma anche con piante, fiori, alimenti, tutto ciò che c’è di organico e vivo.

Per il secondo punto, la ricerca spasmodica del ‘minor prezzo’, fatto attraverso il continuo schiacciamento della retribuzione di chi lavora (unico fattore di costo su cui l’industria ha potuto lavorare, poiché gli Stati non hanno mollato la presa fiscale, al contrario l’hanno aumentata), ha fatto sì che l’intera o quasi produzione di beni, di consumo o come componenti industriali, si spostasse verso Cina, India, sudest asiatico. Cina, in particolare. È da quelle regioni che arriva lla quasi totalità dei beni che troviamo sugli scaffali dei nostri negozi, in Italia come nel resto dell’UE. Con due conseguenze fondamentali: il tessuto industriale italiano, ed anche quello europeo più in generale, è stato distrutto, mentre il minimo ‘problema’ di produzione, il minimo inceppo nel sistema industriale in Cina porta a conseguenze disastrose per l’economia italiana e per quella europea.

La riprova sta negli allarmi che fin dallo scoppio dell’epidemia di coronavirus a Wuhan e nello Hubei, sono stati lanciati da imprenditori, industriali, analisti, italiani e non: le politiche attuate dal governo cinese per limitare la diffusione del virus hanno significato lo stop della produzione industriale e la progressiva carenza di beni di consumo e industriali nel resto del mondo. Oltre che una rapida diminuzione della capacità cinese di assorbire la produzione europea e mondiale di beni di alta qualità. Sono migliaia i nostri piccoli produttori e imprenditori alle prese con l’impossibilità di produrre o vendere perché la componente cinese del loro business è crollata.

Insomma, l’epidemia sta mettendo in luce quanto il sistema economico imperante sia debole e fragile, aperto ai minimi refoli di vento che possano comportare blocchi anche solo temporanei nei flussi.

Cosa fare?

Tornare ad un modello di produzione ‘nazionale’ è l’unica via. Un modello che oltre a privilegiare il ‘Chilometro Zero’ a tutti i livelli, sia anche sottoposto a rigidi controlli da parte dello Stato. Sia chiaro, ‘rigidi controlli’’ non significa maggiore peso fiscale e burocratico. Al contrario, ogni forma di tassazione per chi investe e produce nel nostro Paese deve essere alleggerita, arrivando anche alla eliminazione se necessario. Questo, per favorire, appunto, il processo di re-industrializzazione dell’Italia, del ritorno del nostro Paese ad una capacità produttiva di rilievo. A cui si deve accompagnare una forte spinta all’innovazione.

È palese come non si possa pensare di tornare ad un modello industriale basato sulla manodopera. Sono passati i decenni, l’Italia non è più quella del 1960, siamo di più ma siamo anche meno giovani. Per re-industrializzare, creare ricchezza e lavoro, bisogna puntare creazione di un sistema bilanciato tra manodopera e tecnologia, un sistema in grado di assorbire la grossa fetta di popolazione disoccupata, sotto-occupata, inoccupata, inattiva, dando lavoro a milioni di persone e contribuendo a distribuire ricchezza ai singoli e alle famiglie. Lavoro a retribuzione degna di questo nome, ovviamente. Perché la creazione ex-novo di un tessuto industriale e produttivo passa obbligatoriamente attraverso la creazione di un modello economico italo-centrico, che sostenga le nostre aziende, le faccia crescere, dia loro la possibilità di formarsi e arrivare a capacità produttive degne di nota. Obiettivi, tutti questi, raggiungibili solo se lo Stato fa la sua parte, riducendo la sua fame di tasse – che poi non si sa dove vanno a finire (o forse, lo sappiamo anche troppo bene)! – ed ergendosi come protettore delle aziende italiane nei confronti dei quelle straniere.

La domanda, a questo punto è: l’Italia, le sue istituzioni, le sue classi dirigenti politica ed economica, sono pronti per una tale ‘innovazione’?

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